AMERICAN IN ME W/ BRAD KLAUSEN live @ Temple of the Sun – SECONDO TEMPO

Abbiamo assaggiato qualche aspetto della Grunge Scene post Nineties; con l’onore e il piacere di una confidenza di Brad Klausen ai microfoni di IPRA, e mezza intervista è andata. Che aspettate? La seconda parte è qui che si raffredda!

D.: Ho letto cosa hai scritto su Eddie Vedder riguardo alla realizzazione del suo poster per la tournèe solista: ‘a volte penso che non gli piacerà affatto una cosa, e lui la adora. E viceversa’. Questo è un problema comune nel tuo lavoro. Come lo fronteggi?

R.: Beh, non lo risolvi mai in realtà. C’è sempre una parte di te che resta in dubbio sul fatto che al cliente potrà piacere o meno ciò che hai realizzato. Basta solo cambiare il modo di approcciarsi alla progettazione. Devi immergerti nel lavoro tenendo presente dall’inizio che il gusto del cliente potrebbe non corrispondere al tuo. Che puoi facilmente tornare a disegnare lo stesso soggetto o addirittura che puoi non soddisfare le sue richieste e abbandonare la commissione. Può essere dura, soprattutto quando realizzi un disegno di cui sei fiero e sai che funziona benissimo, ma il cliente non è della stessa idea. Non devi innamorarti troppo di un progetto, il che è difficile in special modo se ci hai impiegato tempo ed energie. Quando al cliente non piace ciò che realizzi ti muovi velocemente pensando a qualcosa di alternativo che possa piacergli, o sposti l’attenzione su una nuova commissione. Tutto ciò che puoi fare è provare e dare del tuo meglio, sperando che la soluzione definitiva piaccia a chi lo richiede.

D.: Per i Pearl Jam hai realizzato anche il progetto del Live at the Gorge e la fotografia del celebre avocado. Com’è stato lavorare per la copertina di un disco? E’ più difficile della realizzazione di un rock poster?

R.: Non direi che le copertine dei dischi siano più complesse dei posters, sono semplicemente un altro animale. Un album ha uno scheletro totalmente differente e molte parti da tenere in considerazione. Con il poster puoi focalizzarti su un unico aspetto della band e sulla loro musica; l’artwork di un disco deve incapsulare l’intero corpo di un lavoro, l’intero progetto musicale del momento. Anche con i posters la band da un piccolo input sul design e sul concept, ma con gli albums si è tutti molto più coinvolti…come poi dovrebbe essere: c’è la presentazione, la consegna della nuova musica al proprio pubblico.  L’artwork di un disco è un processo in collaborazione con la band, e i posters sono qualcosa in cui hai briglie sciolte e puoi correre libero.

D.: Nel tuo libro dici che Escher è uno dei tuoi artisti preferiti, infatti entrambi i lavori sono pieni         di dettagli. Ti sei mai posto il problema della complessità della tua arte? Hai mai pensato al rischio della complessità di composizione?

R.: Credo che ci siano molte incomprensioni nel mondo stesso; c’è praticamente sempre il rischio che qualcuno fraintenda qualcosa o che larga parte di una popolazione fraintenda qualcuno. Ho fatto posters che la gente ha frainteso, o solo compreso in parte. Ma ho ricevuto una email da qualcuno che ha totalmente capito cosa stavo realizzando, fino al più piccolo dettaglio. Il chè mi fa sempre sorridere, sapendo che alla fine qualcuno nota le differenze. Vado a fondo nel mio lavoro sapendo che in molti potrebbero non comprendere perfettamente cosa sto provando a esprimere…ma confido sempre in colui che ha ‘gli occhi per guardare’.

D.: Parlando di composizione, per quasi tutti i tuoi lavori elabori personalmente I caratteri, non usi quelli predefiniti. Mi ricorda molto Rick Griffin e, più largamente, la poster art psichedelica. Quali sono le tue influenze?

R.: Sono abbastanza invaghito della possibilità di creare caratteri propri. Non ho problemi a usarne di preesistenti, adoro la tipografia e il carattere quindi se ce n’è la possibilità preferisco realizzarli da me; ma molto spesso una font preesistente funziona molto meglio di una personale composizione. Essendo un fan del carattere mobile la creazione di proprie forme è stata una delle vie che mi ha condotto alla poster art. Si può essere molto liberi con la tipografia, si possono inventare nuove forme e fare in modo che alcune scritte siano praticamente illeggibili alla prima occhiata, cosa che non ci si può concedere sempre. Ho tantissime influenze ma alcuni dei miei artisti preferiti sono James Jean, Aaron Horkey, Ken Taylor, Alphone Mucha e MC Escher.

D.: Infine, una domanda IPRA, per toglierci la curiosità: elencami data, luogo e artista per il poster dei tuoi sogni.

R.: I Tool durante il 21 Dicembre 2012 davanti al Tempio del Sole di Teotihuacan, in Messico.

Oregon Pizza nasce a Napoli nel 1988. Si trasferisce in Emilia-Romagna e dopo aver frequentato l'Istituto Statale d'Arte di Forlì si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Bologna, svolgendo prima il triennio di Scenografia e successivamente il biennio di Illustrazione. Fa tirocinio presso teatri locali (Diego Fabbri, Forlì) e non (Sociale, Rovigo); elabora loghi e locandine per eventi. Ama la musica ma - sinceramente - le riesce meglio disegnarla che suonarla.

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